sabato 28 marzo 2015

Cinema Suite - Tempi Moderni (1936)


Titolo: Modern Times (Tempi moderni)
Anno: 1936
Regia: Charlie Chaplin
Durata: 87 min.

- Commento - 
Può esserci una velata ingiustizia in questa pellicola, e forse è proprio così: Tempi moderni resta un film muto, proprio per fomentare quell'agghiacciante morale che si cela dietro atteggiamenti deliranti e una struttura a tratti comica, ma che nasconde in realtà l'involto soffocante dell'epoca, dove l'uomo è considerato un lavoratore, solamente un lavoratore che è in grado di salvaguardare la sua integrità fisica e mentale. Ma gli uomini non sono fatti d'acciaio, questo Charlot lo ripete silenziosamente fino allo stremo.
Un film che merita di essere visto e considerato per ciò che è: una denuncia al regresso e, allo stesso tempo, al progresso, che se usati in conflitto con l'umanità creano danni irreversibili.

- Focus On -
Il personaggio che scelgo è, ovviamente l'operaio. In questa interpretazione Charlot è stato magistrale, mischiando il tragico alla commedia, e rappresentando la debolezza umana in ogni sua forma. Ammetto di essere di parte, ma non posso restare indifferente di fronte alla sua comunicazione, che anche in questo caso si è dimostrata superba, in quanto la sua espressività è unica, non classificabile. In ogni suo gesto c'è un mondo da scoprire; bisogna raccoglierne ogni brandello con le pinze, ma per comprendere a fondo le mie parole bisogna guardarlo e guardarlo ancora. Un capolavoro!


- Trama -

mercoledì 25 marzo 2015

"People in a City" ovvero: Condividere cultura, non cazzate






In realtà, immagino che per chi abbia visto “The Avengers” o conosca i super eroi della Marvel o abbia passato l’infanzia a cagarsi in mano ogni volta che Lou Ferrigno si trasformava in Hulk non sia difficile capire quanto megalomane io possa sentirmi nel pensare a “People in a City”.
Tutto inizia dopo aver finito di scrivere un libro, che indovinate un po', si chiama proprio cosi.
Storie apparentemente slegate tra loro con protagonisti personaggi random che ad un certo punto...no, niente spoiler.
Beh, dopo averlo finito, non sono più riuscito a concludere nulla di buono. Ogni cosa che scrivevo sembrava privo di coerenza, volevo scrivere romanzi che parlassero di milioni di cose che però non capivo perché volessero stare assieme. Finché una domenica mattina, mentre ero in macchina, mi viene in mente una cosa.
C’era in effetti qualcosa che invece sembrava unire il tutto. Tutte le storie, i personaggi, persino alcuni eventi che rimanevano senza una causa narrativa valida trovavano una giusta dimensione in quel modo.
Mi riferisco alla Città. Ogni cosa che scrivevo difatti era sempre ambientata in questa Città, che poi sarebbe il posto da cui vengo se fosse figo.
Quello era il segreto! Creare una Città e inserire le storie! Ma come?
E allora, in ordine sparso perché altrimenti starei qui a scrivere ore e ore, la mia testa inizia a pensare a tutte le cose che ho imparato e visto da quando ho iniziato a frequentare Internet.
Perché vedete, io credo che Internet sia la cosa più bella e straordinaria che potesse capitarci. Ci permette di comunicare con chiunque nel mondo, di sapere quello che vogliamo sapere e ha permesso a roba come 4chan di diventare comicità rispettata.
Perché quando si parla di “People in a City” mi riferisco all’uso che intendo fare di Internet riguardo la scrittura e la condivisione.
Creare una Città virtuale piuttosto che un solo romanzo era solo l’inizio. Il passo successivo è stato puntare più in alto.
Perché infatti non cercare di dare vita a qualcosa che potesse essere utile non solo a me, ma a tutti?
Perché sapete, io ho capito una cosa nel corso di questi ultimi anni. Sono una persona fortunata perché ho avuto modo di conoscere alcune delle persone più talentuose di questo mondo.
Allora ho deciso. Nella mia Città ci sarebbe stato spazio per tutti. E non mi riferisco però a chiunque scatti una foto al proprio gatto. O che prenda una penna, faccia due rime e si crede Rimbaud perché la sera al bar beviamo assenzio.
No, parlo delle persone piene di talento.
Parlo di Kenzo de la Vega che una volta ho sentito suonare in un bar, lo “,Shine” insieme ai Bleu Van Gogh e ho pensato “Loro non dovrebbe suonare qui. Dovrebbero suonare ovunque nel mondo.”
Parlo di Sara Sofia, fotografa fantastica e mia “prima cliente” <3
O di Marika Moretti e le sue foto. Come fai a non innamorartene, quando le vedi?
Tutto il resto è stato poi un volo in picchiata, di quelli che ti getti nel vuoto solo per prendere lo slancio che ti serve ad andare più in alto, verso luoghi che non conosci neanche, che non vedi, ma sai che devi andarci.
Carla Sofia, mia carissima amica e a cui devo talmente tanto che non so come farò per ripagarla, mi ha disegnato la mappa della Città, su cui inserisco foto e disegni, copertine di racconti che parlano di quel dato punto.
Ho iniziato a conoscere persone fantastiche che hanno iniziato a collaborare nei modi più disparati.
Benny, la mia “soul sista”, ha dato vita ad un blog chiamato “Benny in a City” in cui i suoi testi straordinari si legano a fotografie meravigliose, e Philgrim ha iniziato a scrivere e ad aiutarmi, diventando per me come un fratello.
Valy e il suo PlushinGeek  hanno dato un negozio alla Città, dove potete comprare ogni cosa vi venga in mente. Il loro motto difatti è ‘Creiamo ciò che desideri”.
E in Selene Maestri ho scoperto qualcuno di preciso, professionale e talentuoso. Tre cose che difficilmente puoi trovare in un singolo essere umano, soprattutto in un periodo in cui tutti amano piangersi addosso dalla mattina alla sera pur di non alzare il culo.
Per non parlare di Antonio del Maestro. Ci siamo conosciuti da poco eppure abbiamo già capito una cosa. “Great minds think alike”. Abbiamo avuto la stessa visione del futuro e la abbiamo canalizzata su strade parallele. Accanto a “People in a City” potete infatti trovare “IoPosto”, collettivo di Blog dove mettersi in gioco, seriamente, e che ha grandi ambizioni.
Perché la differenza tra noi e tutti gli altri sta nell’impegno che mettiamo in ciò che facciamo. Abbiamo tutti intenzione di non abbandonare i nostri sogni, i nostri progetti. E quindi ci diamo una mano a vicenda, pur stando lontani e sparsi un po’ per tutta l’Italia.
E di preciso, allora, cosa facciamo, vi chiederete?
Beh, usiamo Internet per farci pubblicità non invasiva. Scriviamo un racconto e lo riempiamo di contenuti che non sono fini a se stessi, bensì vogliono farvi scoprire musica, fotografia illustrazione di qualità. Vogliamo che la Città sia un punto di incontro per gente piena di talento, dove generare collaborazioni e progetti di qualità sempre più più elevata e soprattutto libera.
Perché una delle cose che la gente tenda a non vedere, è che il modo di fare le cose sta cambiando.
La scrittura sta cambiando. Il modo di fare pubblicità, di pubblicare e di gestire i diritti, sta cambiando. Quindi abbiamo dovuto lavorare molto anche in questo senso, scrivendo in maniera molto libera, utilizzando il Copyleft piuttosto che il Copyright per tutelare il sito (e già mi immagino “Copyleft? cos’è? Andate ad informarvi, perché Internet e arte vogliono dire anche questo)
Da pochi giorni per esempio ho creato una Galleria d’Arte, “La Galerie des Nuits Blanches”, un punto che puoi trovare in Città e in cui ambiento storie e racconti con i miei protagonisti, ma dove in realtà potete trovare i contatti di veri artisti. E’ una vetrina, in cui i racconti diventano il veicolo per promuovere l’arte e l’artista.
Cliccando su alcuni quadri verrete spediti nei vari blog che stiamo costruendo e leggere storie, ascoltare musica e scoprire persone che stanno tentando di dimostrare che la condivisione è un mezzo potente e bellissimo, se usato nel modo giusto.
E con Lobo dei Sick’n’Beautiful, la persona più folle che conosca, stiamo tentando di fare la stessa cosa anche per le band emergenti.
Insomma, siamo persone che ad un certo punto hanno deciso di smetterla di pensare che prima si stava meglio e fossero tutti più bravi e hanno iniziato a guardarsi attorno.
E sapete una cosa?
Le cose che vediamo ogni giorno, sono straordinarie, e sono proprio accanto a noi, a portata di mano.
Quindi perché non venite a fare un giro in Città anche voi? ;)

 The City (Questi sono i siti e i blog che fanno parte della Città, e che potete trovare appunto sparsi sulla rete, ma che potete raggiungere dall’Hub centrale rappresentato da “People in a City.com”)




Ash in the Streets

domenica 22 marzo 2015

L'arte che non si vede: le minisculture di Jonty Hurwitz

?  Lo Speed Dating è un sistema organizzato di appuntamenti al buio tra uomini e donne single. Si ha un dato numero di minuti per parlare e conoscere la persona che ci sta di fronte: al termine di questo periodo l'organizzatore suona una campanella e si cambierà partner.

DING!


I vostri primi appuntamenti sono stati davvero incredibili (ve li siete persi? Rimediate qui). Eppure il più strano sta ancora arrivando. Perché ora di fronte a voi c'è un ingegnere sudamericano che vi porge il proprio personale omaggio: solo che voi non vedete niente. Uno scherzo di cattivo gusto? Niente affatto. Il suo nome è Jonty Hurwitz e vi sta offrendo qualcosa di unico: la scultura più piccola al mondo.

Se c'è un caso in cui arte e tecnologia si sono fuse alla perfezione, è quello delle mini-sculture di Jonty Hurwitz: unendo le sue conoscenze ingegneristiche a una spiccata vena artistica, Jonty crea sculture di dimensioni impossibili alla visione umana, se non con microscopi elettronici a scansione, solitamente usati per ricerche in scala molecolare e atomica.


"A nano sculpture about trust, tiny in space
yet born of a love spanning a lifetime"
.
Ed è così che nasce Trust, la più piccola figura umana mai realizzata in forma d'arte: le fattezze di una donna perfettamente riportate in dimensioni paragonabili a quelle di un capello. Una figura umana racchiusa in pochi millesimi di millimetro
Dieci mesi di lavoro, set con oltre 250 macchine fotografiche per estrapolare l'immagine che, grazie a sofisticatissime tecnologie di stampa 3D, viene riprodotta come plasmando argilla a dimensioni microscopiche. Eppure l'artista-ingegnere non si ferma qui: in mesi di lavoro nascono ben 7 sculture, tutte di dimensioni impercettibili alla vista ma di una precisione e un dettaglio formidabili.


E poi, la tragedia. Proprio la peculiarità di questo tipo di arte ne determina la rovina: un errore del macchinario che effettua la scansione, e i capolavori di Jonty Hurwitz sono persi per sempre. Eppure lo shock iniziale viene presto sostituito da una consapevolezza: "Improvvisamente" ha detto lo scultore "mi sono reso conto che quelle nano-sculture avevano dato vista a una storia: è il desiderio, tutto umano, di voler creare qualcosa di unico. E' una storia tragica, ma non priva di ironia: un oggetto fisico invisibile all'occhio umano è scomparso per sempre, per lasciare posto a una storia indelebile".

Poetico, vero? Quindi attenti a non distruggere il suo invisibile dono, mentre l'ingegnere sudamericano si avvia verso nuovi e speriamo indistruttibili lavori. La nostra rubrica invece vi dà appuntamento al prossimo articolo, per un nuovo, imperdibile Speed Date di Arte&Scienza! Alla prossima! ;)


∼ Marta∼

*Per approfondire il lavoro di Jonty Hurwitz, ecco il link al suo sito.*






venerdì 20 marzo 2015

L'arte ai tempi del consumismo - Io dico no alla scrittura come cura

L'arte ai tempi del consumismo

Una cronaca informale


a cura di Alessandra Nitti







L'arte ai tempi del consumismo
Una cronaca informale

a cura di Alessandra Nitti




Io dico “no” alla scrittura come cura del sé



Quando soffrono i professionisti smettono di scrivere ed i dilettanti si mettono a scrivere.

Sandro Veronesi.


Perché scrivi?
Questo è uno dei quesiti che vengono posti più spesso a scrittori, pennivendoli e aspiranti tali, un po' come le seccanti e ripetute domande “Quanti esami ti mancano?” “Quando ti laurei?” “Quando ti sposi?”
Le risposte, come sempre, sono le più varie: perché mi piace vivere in un mondo lontano da quello reale, per passione, perché da grande voglio essere come Stephen King e, soprattutto, la scontatissima formula: “Perché mi svaga, mi allontana dai miei problemi.” E io quest'ultima frase l'ho sentita migliaia di volte, forse anche troppe. Ad esempio, l'inquietante frase: “Oh, sai, io scrivo. Quando sono triste butto giù qualche pensiero. Vuoi leggerlo?” La mia parte gentile mi fa venir voglia di impostare un sorriso falso e dire “Oh, ma certo! Ma quanto sei bravo!” ma, grazie a Dio, non sono così.
Scrivere è bello, ma raccontar storie è un'altra cosa. Starsene in silenzio con i propri pensieri e carta&penna è appagante, ma emozionare qualcuno è ben altro.
Aprire il taccuino, armarsi di penna e mettere in ordine i propri pensieri è un gesto che soddisfa come pochi, che aiuta a far il punto della giornata. A questo servono i diari segreti che scriviamo da piccoli, ad essere totalmente noi stessi senza paura di venir giudicati, almeno fin quando qualcuno non forzi la serratura del lucchetto – e quelli dei diari sono estremamente fragili e alquanto inutili, dopotutto – e si intrometta nella nostra intimità.
Costringere gli altri a leggere ciò che si scrive sotto la tortura delle proprie pene interiori è crudele, invece. Rimpinzare gli stati Facebook di frasi scontate scritte in un momento no o caricare in Amazon tutta la spazzatura della propria mente chiedendo di essere pagati... beh, la frase continuatela voi.
E io allora vi chiedo, perché dovrei leggere i rifiuti del vostro ego o, peggio ancora, quelli marci e ammuffiti da anni che l'es continua a rigurgitare? Sarebbe come venire a casa vostra e accontentarmi di leccare la carta dello yoghurt presa dal cestino sotto il lavello, quello dove raccogliete il secco, e magari anche complimentarmi con voi e pagarvi.
No. Io non ci sto, io non leggo quello che scaturisce dalla penna appesantita dalle vostre insoddisfazioni.

Io voglio ascoltare una storia.


Io scrivo per narrarvi una storia.




venerdì 13 marzo 2015

Favole&Viaggi - Degli dei e degli altri demoni - Calliope

A cura di Alessandra Nitti



Favole, miti e leggende del mondo del fantastico, tra letteratura e arte. Viaggi vituali e reali d'evasione... tutto in una pagina: questa!



Se mi chiedi quali sono stati i miei grandi libri, sono stati i viaggiatori del passato, ho sempre viaggiato con loro, erano i miei migliori compagni di viaggio. 
Tiziano Terzani


Degli dei e di altri demoni
Calliope




Io ho un'arma. È affilatissima.
Nessuno mi ha mai dato la licenza per usarla. Forse perché a nessuno importa.
Sono molti quelli che ridono di me. Loro non sanno che io ho ucciso delle persone, decine di persone! E non mi fermerò di certo qui. Ho anche torturato, maltrattato e stuprato esseri umani. Lo ammetto, mi sono divertito. Mi piace sentirmi onnipotente, impugnare la mia arma e fare dell'altro ciò che voglio. Sono ebbro di questo potere, non potrei mai smettere. Ho visto teste fracassate e fiumi di sangue, ho visto membra stritolate e corpi polverizzati.
Non pensate che io sia un sadico. Almeno, non lo sono sempre.
Con la mia arma posso anche guarire le persone: le mie vittime o le vittime degli altri. Posso donargli una nuova vita, posso regalargli giornate di sole e momenti di felicità. Sono come un dio. O forse lo sono per davvero. Non so. A volte l'ebbrezza del potere non mi fa più discernere il vero dal falso: è questo il prezzo da pagare per poter possedere una tale arma.
Non è difficile da usare come sembra. Uccidere, ferire, guarire e donare un sorriso non è complicato. È tutto così terribilmente semplice che spesso mi sembra che il mio talento non sia poi tanto speciale.
La mia arma funziona come un pennello: prendi una tela bianca e incominci a dipingere. Con la mia arma, però, non hai bisogno di destreggiarti tra le migliaia di sfumature dei colori. Essa li ha già tutti dentro di sé.
Posso dipingere ciò che vedo e ciò che sento: dipingo i suoni e gli odori, dipingo volti, cuori e addirittura passioni, dipingo questo disegno che state osservando proprio ora.
I colori sono le parole e l'arma è la mia penna.

domenica 8 marzo 2015

73 secondi - la prima insegnante dallo spazio





Transoceanic Abort Landing
Cape Canaveral

28 Gennaio 1986
ore 11:30 EST


Il mio nome è Sharon Christa McAuliffe, e sono la prima insegnante dallo spazio.

Ripete quelle parole mentalmente un paio di volte, come un mantra, mentre osserva un suo riflesso deformato nella superficie convessa di una spia del quadro comandi.
Inizierà così, la sua prima lezione di scienze, proiettata dallo Space Shuttle Challanger direttamente in televisione.

Il mio nome è Sharon Christa McAuliffe, e sono la prima insegnante dallo spazio. Da questo luogo straordinario, vi parlerò del fascino delle scienze e della matematica, che sono alla base dell'esplorazione spaziale.

Vede accanto a sé gli altri membri dell'equipaggio, che ha conosciuto durante le simulazioni, muoversi con disinvoltura in mezzo a quegli apparecchi moderni e sofisticati a lei quasi ignoti.
Un brivido le passa per la schiena, sensazione talmente frequente, ultimamente, che ci si sta quasi abituando.
Un brivido quando ha sentito l'ambizioso progetto del presidente Regan, Teacher in Space, per stimolare gli studenti statunitensi allo studio delle scienze.
Un brivido quando, insieme a oltre 11.000 insegnati, ha partecipato alle selezioni.
Un brivido, ancora più intenso, nel caldo di quel 19 luglio in cui la NASA ha scelto proprio lei come candidato primario.
E ora è lì, e i brividi non si contano più, con la schiena incollata al sedile e il vocio di altoparlanti e personale dello shuttle. Il lancio è stato rimandato più volte, e l'ansia è aumentata di pari passo: dal 22 gennaio al 24, poi il 25. Si è cambiato sito, dal Senegal a Casablanca, e ancora data, il 27, e poi eccoli, infine: 28 gennaio 1986, ore 11:38.
Scambia uno sguardo con Micheal J. Smith, il pilota. Anche lui è al primo volo, di professione è militare, veterano del Vietnam: eppure sembra così sicuro, pensa Christa, così a suo agio in mezzo agli strumenti. Non ha paura? Non sente anche lui quei brividi ininterrotti lungo la spina dorsale?
Quasi le leggesse nel pensiero, Smith le sorride, la mano che mima un pollice alto.
Forse chi ha visto la guerra non ha più paura di nulla, riflette.

Il mio nome è Sharon Christa McAuliffe, e sono la prima insegnante dallo spazio.

Si concentra sul mantra. Quella sua semplice, banale frasetta entrerà nella storia. E lei, Christa McAuliffe, diventerà un'icona. La prima insegnante dallo spazio: gli occhi di milioni di studenti da tutto il mondo saranno puntati sullo schermo per seguire la sua lezione...e tra quei milioni, sorride, anche quelli dei suoi due figli.
Rivede il dito cicciotto di Matthew indicarla, dagli spalti del Kennedy Space Center, e la vocina acuta di Fanny strillare “Nello spazio! La mia mamma va nello spazio!”.
Gli occhi di Steven, invece, erano uno strano misto di commozione, orgoglio e angoscia.

Sharon Christa McAuliffe, prima insegnante nello spazio. Suona bene, no?
Lui aveva sorriso del suo entusiasmo, le aveva accarezzato piano la guancia con un dito, abbracciandola più forte contro il petto. Non aveva detto niente, non l'aveva mai fatto, perché l'amava troppo per frenare i suoi sogni. E poi, come suol dire da quando è iniziata quell'avventura, chi è lui per strapparla alla NASA?
Avevano fatto l'amore con tenerezza e un po' di nostalgia, come la notte in cui avevano concepito i gemelli. E chissà, pensa Christa con un sorriso segreto, che il miracolo non si sia ripetuto.
Solo nel dormiveglia aveva sentito, o forse sognato, la risposta del marito a quella sua gioiosa domanda. Il tono di voce era basso, lontano, un sussurro nella sua mente semiaddormentata. Suona bene, sì. Uno splendido necrologio...

Ma ora è lì, e i minuti corrono veloci, sulla strumentazione di bordo. 11:36, ancora pochissimo e decolleranno. Un momento provato e riprovato nelle simulazioni degli ultimi mesi, in cui è stata sballottata, centrifugata, contusa, fino ad imparare alla perfezione i movimenti da fare, come mantenere ferma la postura e la voce per quella sua prima lezione.

Il mio nome è Sharon Christa McAuliffe, e sono la prima insegnante dallo spazio.

Ma la frase, imparata a memoria, evapora improvvisamente dalla testa quando a 6.6 secondi dal lancio si accendono i motori principali: il rumore sovrasta ogni cosa, e lei chiude gli occhi, si avvinghia ai braccioli del sedile mentre il combustibile si accende con un boato, le cariche esplosive rimuovono l'allaccio dello shuttle alla rampa. Nel buio degli occhi chiusi di Christa, tutto inizia a tremare, e in un uragano di rumori e vibrazioni avviene il decollo.

In un unico istante i brividi si coalizzano in una scossa paralizzante, realizza di essere una semplice, indifesa insegnante in una scatola di metallo sparata nello spazio. Senza accorgersene inizia a contare - uno, due, tre... - come quando era bambina e giocava a nascondino, tentando di controllare l'adrenalina che, nel suo nascondiglio, le faceva vibrare i polsi.

Dieci, venti, trenta...

Socchiude piano gli occhi, attorno a lei tutto si svolge come nelle simulazioni. Ognuno è al suo posto, padrone, consapevole, incurante del rumore e del tremito che invece l'hanno sconvolta. Smith comunica con la stazione di lancio, scambiano comunicazioni di servizio.

Sta andando tutto liscio. Se ne accorge e quasi ride, di quella sua folle paura. Se l'avesse vista Steven... mesi ad atteggiarsi a intrepida astronauta, e poi eccola lì, che quasi se la fa sotto per qualche secondo di trambusto.

Cinquanta, sessanta...

Le sue dita pian piano lasciano la presa sui braccioli, la bocca contratta le si plasma in un sorriso. Solo ora si guarda attorno, e Dio, com'è bello il panorama mentre sfrecciano nel cielo.

Settanta secondi, e tutto fila liscio. Rilassandosi, smette quasi di contare, e si gode i brividi, quelli buoni stavolta, della straordinaria avventura che sta per vivere.

Il mio nome è Sharon Christa McAuliffe, e sono la prima insegnante dallo spazio.

Sì, entrerà nella storia. Ed è così emozionata che la voce di Smith arriva remota al suo orecchio.

Settantatre secondi.


Uh oh...”



[Il disastro dello Space Shuttle Challenger avvenne la mattina del 28 gennaio 1986 alle ore 11:39 EST, quando lo Space ShuttleChallenger fu distrutto dopo 73 secondi di volo (all'inizio della missione STS-51-L, la 25ª missione del programma STS e il 10º volo del Challenger) a causa di un guasto a una guarnizione. Alcune parti dell'orbiter come lo scomparto dell'equipaggio e molti altri frammenti furono recuperati dal fondo dell'oceano.]



∼ Marta∼





venerdì 6 marzo 2015

Il diario proibito di Maria Antonietta - J. Grey

L'arte ai tempi del consumismo
Il salotto letterario




a cura di Alessandra Nitti



Titolo: Il diario proibito di Maria Antonietta
Titolo originale: Becoming Marie Antoinette
Autore: Juliet Grey
Editore: Newton Compton editore
Pagine: 384
Prezzo: cartaceo 9,90 ebook 3,90



Nel salotto pensano che...

Il diario proibito di Maria Antonietta” è il primo libro della trilogia dedicata alla regina di Francia più famosa della storia a cura di Juliet Grey. Innanzitutto è bene precisare che non è una biografia, ma soltanto un romanzo storico, dove la fantasia dell’autrice si mescola alle memorie del passato. Qui nel salotto lettarario adoriamo i romanzi storici, soprattutto se ambientati nel diciottesimo secolo, ma questo libro ci ha deluso. Ci aspettavamo qualcosa di più, forse più incentrato sugli avvenimenti storici che sconvolsero la Francia dell’epoca. Invece il romanzo gira attorno alle paranoie della regina.
La prima parte è interamente dedicata alle trattative per il suo matrimonio con il delfino di Francia e futuro Luigi XVI. Molto interessanti sono i piccoli dettagli: dalle acconciature di Maria Antonietta, agli abiti, ai modi dei cortigiani, all’apparecchio per i denti settecentesco. Il problema è che questi, insieme ai timori dell’imperatrice Maria Teresa, vengono ripetuti all’infinito per circa duecento pagine. Se la Grey fosse andata più veloce, certamente la lettura sarebbe stata molto piacevole. Noiose sono state, inoltre, le infinite ripetizioni e le descrizioni minuziose di ogni abito che Maria Antonietta cambiava (e a volte si cambiava quattro volte al giorno) o delle lussuose carrozze che utilizzava.
Nella seconda parte si cambia scenario, la giovane arciduchessa è finalmente delfina di Francia e vive a Versailles, dove deve essere sempre cauta alle malelingue e alla complicata etichetta. E anche qui i concetti vengono ripetuti diversi volte, come l’inadeguatezza di suo marito e l’odio verso l’amante del Re Luigi XV. Inoltre tutte le parole tedesche riportate contengono errori, quali “Zehr schöne“ o “Bürgomeister". Un’ennesima nota negativa è l’utilizzo delle parole “claustrofobia” o “shock”, insieme ad altri vocaboli non ancora coniati nel Settecento. Il romanzo è scritto in prima persona, a parlare è Maria Antonietta stessa. Un po’ di attenzione al registro avrebbe sicuramente giovato al libro. Infine, la stessa protagonista è piena di contraddizioni, insieme alla trama in generale. Un capitolo prima è silenziosa e timida, in quello dopo è una guerriera, per poi ritirarsi ancora nel suo guscio.
In conclusione, se l’autrice avesse prestato molta più attenzione e alla trama e al vocabolario e avesse tagliato le innumerevoli ripetizioni e descrizioni pressoché inutili, sarebbe stato un bel romanzo, colmo di curiosità storiche.

mercoledì 4 marzo 2015

[letti per voi] - Passi affrettati, Dacia Maraini

Passi affrettati

Dacia Maraini

libro maraini

Titolo: Passi affrettati - Autore: Dacia Maraini - Edizioni: Ianieri Editore - Anno: 2008 - pagine: 62 - prezzo: 8,08 euro - acquistalo qui


L'Autrice: Dacia Maraini

Dacia Maraini nasce a Fiesole il 13 novembre 1936. La famiglia Maraini dal 1938 e il 1947, visse in Giappone, per seguire gli studi del capofamiglia famoso entologo. E proprio in Giappone l'intera famiglia Maraini venne internata (1943 -1946) in un campo di concentramento, per essersi rifiutata di riconoscere ufficialmente il governo militare giapponese e per non aver firmato l'adesione alla repubblica di Salò. Rientrata in Italia (1950), la scrittrice racconterà le privazioni e le sofferenze vissute in quegli anni nella silloge poetica "Mangiami pure". Negli anni a seguire la Maraini si afferma come una delle più conosciute scrittrici femministe italiane e diventerà la più tradotta nel mondo. Balza alle cronache dell'epoca per la sua lunga relazione con Alberto Moravia, che per lei lasciò la moglie e con cui la Maraini cui visse dal 1962 al 1983, accompagnandolo nei suoi viaggi intorno al mondo. Dacia Maraini è l'autrice di numerosissime opere, romanzi, poesie, testi teatrali tradotte in tutto il mondo.




La mia recensione

Il libro nasce dall'elaborazione di un famoso testo teatrale, scritto da Dacia Maraini, per trasformarsi in un libro-documento a testimonianza di storie di donne vittime di abusi e violenze. Sette donne, sette storie, sette tipi di abusi subiti, sette destini diversi, in sette paesi del globo, accomunate dallo stesso denominatore: la violenza subita sempre all'interno del nucleo familiare, da padri, madri, parenti che si trasformano in aguzzini.

Perché come scrive Maria Rosaria La Morgia nella prefazione:
E' una realtà orribile, la stessa che con l'asettica crudezza dei dati svela il Consiglio d'Europa: per le donne tra i 16 e i 50 anni la violenza rappresenta la principale causa di morte e di invalidità. Tanti autorevoli commentatori si esercitano nella ricerca delle cause: etnia, religione, tradizioni oscurantiste, pochi parlano di conflitto di genere e patriarcato.

Per risolverli non servono polemiche strumentali, ma un profondo cambiamento culturale che può nascere solo dal dialogo e da iniziative concrete e continue, perché la violenza sulle donne appartiene, purtroppo, alla vita di tutti i giorni (…) riguarda tutte le latitudini del nostro paese, la provincia come la grande città, tutte le classi sociali e i livelli di istruzione. Interroga direttamente le nostra “normalità” e il nostro presente.

Lhakpa, Aisha, Civita, Juliette, Amina, Teresa e Viollca eccole queste donne che raccontano il loro percorso dentro l'incubo, narrandolo con semplicità e senza forzare alla pietà, con la determinazione di far sapere, affinché ciò che è accaduto a loro non accada più a nessun altra donna.
Temi attuali purtroppo, che dobbiamo continuamente riportare all'attenzione dell'intera società mondiale, spingendo e obbligando le istituzioni a trovare percorsi alternativi che davvero possano portare a un cambiamento radicale in una direzione diversa.
Breve, conciso, diretto come un colpo al cuore, tanto imperativo nel costringere a non staccare gli occhi dalle parole, genera emozioni tanto profonde quanto permanent come quelle che ci svela Viollca nelle ultime pagine: 
Non riesco a dormire. Forse sono morta e il mio corpo e la mia mente stanno diventando parte di un infinito paesaggio roccioso. Ma qualcosa mi riporta alla vita. E' il pianto insistito di Cate. I tappo le orecchie con le mani e sprofondo in un gelido sonno minerale.

Libro da leggere per capire, per sentire, per cambiare...

∼ Loriana ∼




domenica 1 marzo 2015

Speed Date #2 - Lambrette e rose

?  Lo Speed Dating è un sistema organizzato di appuntamenti al buio tra uomini e donne single. Si ha un dato numero di minuti per parlare e conoscere la persona che ci sta di fronte: al termine di questo periodo l'organizzatore suona una campanella e si cambierà partner. 


DING!
La campanella è suonata, e voi, ancora frastornati dall'incontro con uno dei più grandi geni dell'umanità (vi siete persi lo Speed Date #1? Rimediate qui), vedete già prendere posto al vostro tavolo un personaggio completamente diverso. Ha l'aria taciturna e un po' introversa, quasi distaccata mentre si siede, eppure porta in dono un romanticissimo mazzo di rose blu. Vi dice nulla il nome Pierluigi Torre? Forse no, ma scommettiamo che dopo questo Speed Date non ve lo scorderete più.


Studente prodigio, appassionato dal "bellissimo gioco della matematica", si laurea giovanissimo in Ingegneria Meccanica e subito dopo in Ingegneria Aeronautica. Inventore di velivoli storici (l'idrovolante della trasvolata atlantica di Balbo, a cui lui stesso partecipò) e del precursore della scatola nera, ha consegnato al mondo due "invenzioni" che lo hanno fatto passare alla storia.

Il primo è la Lambretta: simbolo (assieme alla Vespa) dello scooter in tutto il mondo, emblema di un'Italia nel dopoguerra che "vuole volare" (a proposito, sapevate che il marchio è stato ceduto alla società indiana "Scooters of India Limited", che tuttora le produce?).

E il secondo... beh, proprio quelle rose blu che vi ha portato in dono in questo appuntamento. Appassionatissimo di rose, che tiene sul tavolo da lavoro e coltiva sia a casa che di fronte al suo centro di ricerca, applica la scienza a questa sua romantica passione. Il risultato è la rosa blu, perché, affermava agli scettici, con un notevole esempio di scienza e poesia, "il colore è una variabile dell'infinito". Dedicò la scoperta, e il nome della varietà di rosa, all'amatissima moglie Albertina, morta a 54 anni lasciandolo alle prese con una lenta follia paranoica.

Avreste mai detto che un ingegnere aeronautico e appassionato di motori avesse creato il regalo più gettonato per San Valentino? Se la risposta è no, continuate a seguire gli Speed Date di Arte&Scienza su Magla: l'isola del libro! Appuntamento a domenica 15 marzo con il prossimo articolo. ;)
Marta

ps: potete trovare una storia più esauriente su Pierluigi Torre nel libro "Il colore è una variabile dell'infinito" di Roberta Torre, nipote dell'inventore.