giovedì 25 giugno 2015

Internet oggi: oltre alle ruspe c'è di più [social&società]

C’era un tempo dove per poter parlare a distanza bisognava per forza di cose spedire missive. Si stava chini su di un foglio bianco, la piuma stretta in mano, a vergare parole con l’inchiostro nero. Affidare quelle stesse parole a un pennuto essere chiamato piccione e pregare che tale pennuto non finisse preda di qualche freccia o di animali più grandi e feroci. Oggi è molto più semplice. Ci si siede comodi in poltrona, il nuovo modello di portatile in precario equilibrio tra il ventre prominente e le ginocchia ossute e si avvia il browser. In pochi secondi si viene catapultati in un universo alieno composto di dati e numeri, codici su codici che ci permettono di navigare in acque che spesso risultano affascinanti e torbide. Navigando, navigando e navigando sentendosi come i più grandi navigatori della storia, pionieri 2.0 che non sono mai sazi e navigano e navigano e navigano in cerca di novità. Ma qui si stava parlando di comunicazione, di messaggi, di piccioni che tra una cagata e l’altra portano lettere dal punto A al punto B. E quindi torniamo a parlare di questo, della comunicazione tra gli individui e dei nuovi modelli di piccioni: i social network.

Al giorno d’oggi chiunque ha un account su un qualsiasi social network. I più ce l’hanno su quello creato dall’aragosta antropomorfa che risponde al nome di John Zoidberg. No, aspetta. Quell’altro aveva un nome simile, ma… Ok, non importa. Tornando a noi. Sicuramente state leggendo i miei pensieri (lungi da me chiamarlo articolo) perché ve li siete trovati nella home del vostro social preferito. È anche questa comunicazione. Una comunicazione che spesso viene sottovalutata, derisa ma che molto spesso ha il potere di scuotere le masse, di avere grande risonanza, di coinvolgere milioni di persone.
Ed è questo che sta accadendo in queste settimana. Vediamo… Qual è l’argomento bollente, hot, caldo di queste settimane?
La Juventus che perde la finale? No.
Chi ha vinto amici? Ma per favore.
Gasparri che, preso dalla sua lotta contro il gemello malvagio (?) e inconsapevole che tablet e smartphone hanno la possibilità di fare uno screenshot della schermata, si fotografa la pancia pelosa? Maybe yes, maybe not.
L’immigrazione? Cento punti a Serpeverde! (fanculo Grifondoro)
E quanti di voi hanno scritto, commentato, condiviso, piacciato su quest’argomento? Su Orso Matteo e le sue ruspe, sulla Giorgia che urla rimandiamoli a casa, su altri individui che gridano che dobbiamo accoglierli e coccolarli. Ne sono state dette tante. Si è parlato di invasione e di guerra. Si son visti video dove l’acciaio incontra la carne che nemmeno in Game of Thrones. Post di ragazze che scrivono post contro gli immigrati e posti di ragazze che vanno contro l’altro post dell’altra ragazza. Guerre di like, di condivisioni. Commenti lasciati da account con l’immagine di Cristopher Lee (R.I.P. Saruman… Again) in attesa della prossima celebrità che salperà per un posto migliore e diventerà la nuova stella preferita, quella di cui abbiamo visto tutti i film o ascoltato tutti i cd.
E poi di nuovo Salvini con la Ruspa.
E la Selvaggia che dice alla Samantha che è stata lì a non fare un cazzo.
E poi ridatece i marò.
E poi ancora i selfie del premier o le partite a PES (meglio FIFA).
E poi di nuovo Salvini con la Ruspa e via così.
Ma ci sono anche le cose belle eh! Per esempio:
La pagina di Gianni Morandi.
I concorsi letterari.
Gruppi di cultura.
Gruppi dove si dibatte pacificamente e piacevolmente.
La pagina di Gianni Morandi.
E i motori di ricerca! Si, quelle cose dove scrivi Salvini e oltre a “RUSPAAAA” esce anche di quando firmò il trattato (si, quel trattato).
Se non si sta attenti si finisce in un tornado di frasi, fatti, immagini, video, luoghi e odio e rancore e… Quanto son belli i social network.
Siamo arrivati alla fine di queste parole. Magari pensavate che volevo dire la mia sul fenomeno immigrazione o su quello che penso dell’internet (dio se amo i meme) o ancora un mio parere personale. No. Mi dispiace avervi delusi ma tant’è. Il mio era solo uno sfogo. Un togliere dalla mente alcune cose e riversarle in una pagina web. E poi magari l’ho dato il mio parere, nascosto tra le righe.
Detto ciò vi ringrazio per essere arrivati fin qui e mi auguro che non finiate coinvolti in qualche guerra per i like o indottrinati dai tweet del buon Gasparri (e perché no, anche dei due Mattei).
Che poi suvvia, tra una cagata e l’altra (proprio come i bei vecchi piccioni) i social network sono un bel posto. Ora vi saluto. Vado a scrivere RUSPA sul motore di ricerca. Non sia mai trovo un’offerta su qualche toys store e faccio felice mio nipote.


- di Valerio Zavaglia

Internet oggi: oltre alle ruspe c'è di più [social&società]


C’era un tempo dove per poter parlare a distanza bisognava per forza di cose spedire missive. Si stava chini su di un foglio bianco, la piuma stretta in mano, a vergare parole con l’inchiostro nero. Affidare quelle stesse parole a un pennuto essere chiamato piccione e pregare che tale pennuto non finisse preda di qualche freccia o di animali più grandi e feroci. Oggi è molto più semplice. Ci si siede comodi in poltrona, il nuovo modello di portatile in precario equilibrio tra il ventre prominente e le ginocchia ossute e si avvia il browser. In pochi secondi si viene catapultati in un universo alieno composto di dati e numeri, codici su codici che ci permettono di navigare in acque che spesso risultano affascinanti e torbide. Navigando, navigando e navigando sentendosi come i più grandi navigatori della storia, pionieri 2.0 che non sono mai sazi e navigano e navigano e navigano in cerca di novità. Ma qui si stava parlando di comunicazione, di messaggi, di piccioni che tra una cagata e l’altra portano lettere dal punto A al punto B. E quindi torniamo a parlare di questo, della comunicazione tra gli individui e dei nuovi modelli di piccioni: i social network.

Al giorno d’oggi chiunque ha un account su un qualsiasi social network. I più ce l’hanno su quello creato dall’aragosta antropomorfa che risponde al nome di John Zoidberg. No, aspetta. Quell’altro aveva un nome simile, ma… Ok, non importa. Tornando a noi. Sicuramente state leggendo i miei pensieri (lungi da me chiamarlo articolo) perché ve li siete trovati nella home del vostro social preferito. È anche questa comunicazione. Una comunicazione che spesso viene sottovalutata, derisa ma che molto spesso ha il potere di scuotere le masse, di avere grande risonanza, di coinvolgere milioni di persone.
Ed è questo che sta accadendo in queste settimana. Vediamo… Qual è l’argomento bollente, hot, caldo di queste settimane?
La Juventus che perde la finale? No.
Chi ha vinto amici? Ma per favore.
Gasparri che, preso dalla sua lotta contro il gemello malvagio (?) e inconsapevole che tablet e smartphone hanno la possibilità di fare uno screenshot della schermata, si fotografa la pancia pelosa? Maybe yes, maybe not.
L’immigrazione? Cento punti a Serpeverde! (fanculo Grifondoro)
E quanti di voi hanno scritto, commentato, condiviso, piacciato su quest’argomento? Su Orso Matteo e le sue ruspe, sulla Giorgia che urla rimandiamoli a casa, su altri individui che gridano che dobbiamo accoglierli e coccolarli. Ne sono state dette tante. Si è parlato di invasione e di guerra. Si son visti video dove l’acciaio incontra la carne che nemmeno in Game of Thrones. Post di ragazze che scrivono post contro gli immigrati e posti di ragazze che vanno contro l’altro post dell’altra ragazza. Guerre di like, di condivisioni. Commenti lasciati da account con l’immagine di Cristopher Lee (R.I.P. Saruman… Again) in attesa della prossima celebrità che salperà per un posto migliore e diventerà la nuova stella preferita, quella di cui abbiamo visto tutti i film o ascoltato tutti i cd.
E poi di nuovo Salvini con la Ruspa.
E la Selvaggia che dice alla Samantha che è stata lì a non fare un cazzo.
E poi ridatece i marò.
E poi ancora i selfie del premier o le partite a PES (meglio FIFA).
E poi di nuovo Salvini con la Ruspa e via così.
Ma ci sono anche le cose belle eh! Per esempio:
La pagina di Gianni Morandi.
I concorsi letterari.
Gruppi di cultura.
Gruppi dove si dibatte pacificamente e piacevolmente.
La pagina di Gianni Morandi.
E i motori di ricerca! Si, quelle cose dove scrivi Salvini e oltre a “RUSPAAAA” esce anche di quando firmò il trattato (si, quel trattato).
Se non si sta attenti si finisce in un tornado di frasi, fatti, immagini, video, luoghi e odio e rancore e… Quanto son belli i social network.
Siamo arrivati alla fine di queste parole. Magari pensavate che volevo dire la mia sul fenomeno immigrazione o su quello che penso dell’internet (dio se amo i meme) o ancora un mio parere personale. No. Mi dispiace avervi delusi ma tant’è. Il mio era solo uno sfogo. Un togliere dalla mente alcune cose e riversarle in una pagina web. E poi magari l’ho dato il mio parere, nascosto tra le righe.
Detto ciò vi ringrazio per essere arrivati fin qui e mi auguro che non finiate coinvolti in qualche guerra per i like o indottrinati dai tweet del buon Gasparri (e perché no, anche dei due Mattei).
Che poi suvvia, tra una cagata e l’altra (proprio come i bei vecchi piccioni) i social network sono un bel posto. Ora vi saluto. Vado a scrivere RUSPA sul motore di ricerca. Non sia mai trovo un’offerta su qualche toys store e faccio felice mio nipote.

- di Valerio Zavaglia

mercoledì 24 giugno 2015

[Letti per voi] - La leggenda del santo bevitore, di J. Roth

Care lettrici e cari lettori, oggi vi invito a leggere il bellissimo libro di Joseph Roth, “La leggenda del santo bevitore” un racconto che mi ha molto colpita. Vado subito a parlarvene…

Joseph Roth, “La leggenda del santo bevitore” - Newton Compton Editori – 2014 – pagine 127 – 1,90 euro



Trama: Andreas, un clochard, vive sotto i ponti di Parigi. Quando un misterioso passante gli dona una piccola somma di denaro, egli la accetta promettendo di restituirla la domenica successiva con un’offerta in chiesa. Ogni volta che ha in tasca il denaro sufficiente per saldare il suo debito, però, Andreas non resiste alla tentazione di usarlo per rincorrere vizi e piaceri e la restituzione di quei duecento franchi diventa la sua tormentata ragione di esistere. Da questo racconto, tradotto in tutto il mondo e considerato il testamento letterario di Roth, è tratto l’omonimo film di Ermanno Olmi, Leone d’Oro a Venezia ne 1988.

Recensione: Commovente, delicato e capace, nella sua voluta semplicità narrativa, di arrivare a scandagliare l’animo umano in profondità. Sembra quasi una parabola della vita e le traversie del barbone e ubriacone Andreas, piegato dalla vita ma che mantiene incredibilmente ancora un cuore intatto, non corrotto dagli eventi passati, ci vengono narrate con un’efficacia che ci spinge a fare il tifo per lui.

Anche le sue continue scivolate nell’oblio e le ricadute nel vizio, ce lo rendono caro grazie proprio alla sua bontà d’animo e a quel modo d’approcciarsi agli altri, quasi fanciullesco.

“E dopo aver sprecato con leggerezza l’esperienza fondamentale data a un uomo e a una donna non sapevano più cosa farsene nemmeno l’uno dell’altra. Così scelsero l’unica cosa che resta agli uomini del nostro tempo quando non sanno cosa fare: andare al cinema. Ed eccoli seduti, non al buio, nemmeno nell’oscurità, in quella che a malapena poteva essere definita una penombra. E si tenevano la mano, la ragazza e il nostro amico Andreas. Ma la sua stretta era indifferente e lui stesso ne soffrì. Ne soffrì per primo. Perciò, durante l’intervallo, decise di andare a bere qualcosa con la bella ragazza nel foyer, e andarono nel foyer e bevvero. Il film non lo interessava più. Fecero ritorno in albergo provando un grande senso di oppressione.”

Purtroppo nel suo cammino il protagonista incontrerà persone a cui era legato, che lo ripagheranno con la stessa ingratitudine d’allora; mentre altri personaggi incontrati per caso, sembrano angeli mascherati e con la loro generosità nei suoi confronti compiono miracoli d’amore che ripagano l’anziano barbone di tanti anni di sofferenze.

“Si riconobbero subito. Ancora in piedi nell’atrio, si scambiarono vecchi ricordi di scuola, poi andarono a cena insieme. Tra i due regnava grande allegria. Mangiarono insieme e fu così che il famoso calciatore fece al malandato amico la seguente domanda:
“Come mai sei ridotto così male, e cosa sono questi stracci che hai addosso?”
“Sarebbe terribile se ti raccontassi cosa è successo”, risposte Andreas “E rovinerebbe la gioia del nostro incontro. Non sprechiamo tempo su questo argomento, parliamo piuttosto di qualcosa di allegro”.
“Io ho molti vestiti”, disse il famoso calciatore. “Mi farebbe piacere dartene uno. Eravamo compagni di banco e mi lasciavi copiare. Cosa vuoi che sia un vestito per me! Dove te lo mando?”
“Non puoi mandarmelo”, replicò Andreas, “per la semplice ragione che non ho un indirizzo. Da un po’ di tempo vivo sotto i ponti della Senna”.
“Allora ti predo una camera”, disse il famoso calciatore, “così potrò regalarti un vestito. Vieni!”.
Finito di mangiare se ne andarono e i calciatore affittò una camera, costava venticinque franchi al giorno e si trovava nelle vicinanze della splendida chiesa di Parigi conosciuta con il nome di Madeleine.”

In fondo, sembra dirci l’autore, alcuni miracoli quotidiani possono essere compiuti da persone luminose, che decidono di rendere felici le persone che incontrano sulla loro strada.

Le ultime pagine inducono il lettore alla commozione. Da leggere.
∼ Loriana ∼





giovedì 11 giugno 2015

[Focus] - Quattro chiacchiere sulla letteratura fantastica di Roberto Rossi “Rubrus”






Letteratura fantastica.

C’è sempre qualcuno che sostiene di non leggerla perché, dice, preferisce leggere di cose reali. Un po’, ma solo un po’, lo invidio o, meglio, invidio la sua convinzione di sapere con tanta illuministica certezza che cosa è reale e che cosa non è. Secondo alcuni tutto sarebbe fatto di pacchetti di energia che vibrano e, non so perché, tutto questo non mi dà l’impressione di essere molto reale. Non sono reali i pensieri e, secondo me, la Terra di Mezzo è reale quanto l’art. 2054 c.c., i prodotti finanziari derivati, i numeri irrazionali ed il complesso di Edipo.

“Fantastico” per me è ciò che, allo stato attuale delle conoscenze, non è verosimile, o plausibile, ma non me la sento di negare con assolutezza che, da qualche parte, anche in questo momento, Achille ed Ettore stiano ancora rincorrendosi sotto le mura di Troia sotto lo sguardo attento di Zeus. Schliemann ne sarebbe certo.

Chiarito quello che per me è “fantastico” (cioè poco verosimile o poco plausibile) vorrei anche chiarire che, a mio parere, si tratta di letteratura.

Qualcuno (probabilmente è lo stesso di prima, sempre lui) aggiungerà “di genere” e mi par di vedere il sorrisetto di compatimento.

“Genere… Embè? ”– dico io.

Allora: secondo me i generi sono utili; servono per sapere di che cosa parla un libro e servono sia a chi scrive sia – e forse anche di più – a chi legge.

Un genere raggruppa in un unico insieme un gruppo di testi accomunati da caratteristiche simili, costruiti secondo tecniche simili e che perseguono un simile fine poetico.

Volete spiegarmi perché un gruppo deve necessariamente essere qualitativamente inferiore ad un altro? Volete dirmi perché scrivere e leggere di dybbuk, elfi e vulcaniani valga ad identificare scrittore e lettore come un bambinone malcresciuto?

Il solito Qualcuno – che ormai sta diventandomi antipatico – sostiene che il “genere” sia, in quanto tale, qualcosa di simile a un ghetto, una taverna malfamata, una specie di club privè frequentato da gente poco raccomandabile.

Peggio per lui, non intendo perdere tempo a convincerlo. Ci sono storie scritte bene e storie scritte male: una storia scritta bene dice cose intelligenti in modo interessante, una storia scritta male no. In mezzo ci sono variabili pressoché infinite e, come direbbe Forrest Gump, non ho altro da dire su questa faccenda.

Il problema – il problema della letteratura fantastica – è che è una letteratura che prende le distanze.

Il Qualcuno, nella sua supponente onniscienza, ignora probabilmente che, per vedere bene le cose, a volte ce se ne deve allontanare.

Prendete un quadro: da vicino vedete le singole pennellate, da lontano ve lo gustate.

La letteratura fantastica (almeno quella buona) prende le distanze dalla realtà e, quando si torna coi piedi per terra, non è escluso che la si capisca meglio, la realtà.

Certo, a esagerare si rischia di fare come quell’astronomo che, guardando le stelle, cadde nel pozzo, ma ad esagerare dall’altra parte si rischia di guardare il proverbiale dito anziché la luna. Ora: io non ho nulla contro le dita, ma anche la luna mi pare interessante.

Osservando le cose da lontano, però, si rischia anche di prendere delle cantonate clamorose.

Nella lettura fantastica si parla spesso per maiuscole: il Senso della Vita, l’Immortalità dell’Anima, la Morte, il Destino del Mondo, l’Esistenza di Dio, lo Scopo dell’Umanità, l’Origine del Tutto e così via.

Tutti concetti, semplicemente, troppo grandi da poter essere facilmente colti nel quotidiano. Bisogna prendere le distanze per capirli meglio e, così facendo, si rischia di finire drammaticamente fuori strada o – peggio ancora – di finire su strade così battute e consumate che, ad ogni passo, rischiate di precipitare in un baratro.

Questo è, secondo me, il problema, non il “genere”. Se volete metterla in altre parole si potrebbe dire che è un genere molto difficile (“ma non era inferiore?” beh, appunto).

“Bisogna scrivere di ciò che si conosce” capita di sentir dire… ma quando mai. A parte il fatto che esiste un verbo come “documentarsi” vorrei dirvi che si mi fate vedere un tale che pensa di “sapere” qualcosa su una qualunque delle quotidiane relazioni umane, mi avrete fatto vedere, probabilmente, un tizio maturo per il manicomio… inutile dirvi che penso sia Qualcuno.

Sappiamo di non sapere, almeno dai tempi di Socrate, e non ci siamo mossi poi molto. In questa ignoranza sta la libertà di parlare scrivere e leggere – con uguale dignità – di cose non verosimili e non plausibili. Oltretutto, c’è già stato chi voleva possedere la Conoscenza del Bene e del Male e sappiamo com’è andata a finire (a proposito, secondo alcuni pure questa sarebbe letteratura fantastica).

Divido la letteratura fantastica, per comodità, in tre grandi aree, che si sovrappongono e s’intersecano. Si tratta di generi, se volete, e quindi vale quanto scritto sopra. Servono, fino a un certo punto, a chi legge e a chi scrive, ma non ne faccio dei totem.

Sto parlando dell’horror, della fantasy e della fantascienza.

Avevo detto, però, che mi sarei limitato a quattro chiacchiere e mi accorgo adesso di essere appena ad un quarto dell’argomento… beh, forse sono un chiacchierone.

Per adesso, comunque, mi fermo qui, riservandomi, se del caso, di riprendere il discorso. 
- continua... -
Roberto Rossi "Rubrus"


 ***

Se qualcuno vorrà ancora seguire la nostra chiacchierata, stavo parlando (da utente della narrativa, per carità, solo da utente della narrativa) dei tre generi in cui per comodità divido la letteratura fantastica. Tre aree che si sovrappongono e s’intersecano, tre indicazioni di massima, più che cartelli a senso unico. Se volete, tracce di sentieri nella foresta della fantasia.

Dato che da qualche parte si deve cominciare, inizierei dall’horror che, (se devo fare il gioco della torre) è il mio preferito.

Definisco racconto dell’orrore o del terrore quello che mira a spaventare il lettore usando elementi narrativi fantastici.

La Radcliffe distingueva i racconti horror in due categorie: quelli che annichiliscono il lettore (e li chiamava racconti dell’orrore) e quelli nei quali fa capolino il meraviglioso (che chiamava racconti del terrore); spaventoso sì, ma pur sempre mix di wonder and terror (come diceva Leiber) o cosmic horror (come si esprimeva Lovecraft).

Anche se io userò i termini indifferentemente, questa distinzione, secondo me, è valida – anche se con tutti i se e i ma che si devono usare quando si maneggiano queste categorie.

Un racconto come “Il gatto nero” fa venire i brividi al lettore (a quasi duecento anni di distanza, ci riesce benissimo) e lì si ferma (anzi, in teoria l’opzione soprannaturale neppure sarebbe necessaria; l’io narrante ci dà una spiegazione razionale, per quanto bizzarra… ma nessuno gli crede, no?).

Un racconto come “La maschera di Innsmouth”, di Lovecraft, con le sue agghiaccianti descrizioni di mostruosità e mutazioni, si chiude con una frase che, in sé, racchiude l’essenza stessa del desiderio dell’Oltre, succeda quel che succeda.

Già, ma perché uno scrive e legge di questa roba?. Anzi, visto che stiamo facendo quattro chiacchiere, perché voi scrivete e leggete di questa roba?.

Vi dirò come la penso: parafrasando John Keating, il prof. de “L’attimo fuggente” (lui parlava di poesia, a dire il vero) noi non scriviamo e leggiamo racconti (anche racconti dell’orrore, sì) perché è carino. Noi scriviamo e leggiamo racconti horror perché siamo cibo per i vermi.

Sì discute da sempre se la rappresentazione di una realtà (e non solo narrativa) abbia funzione catartica o mimetica. In parole povere: uno che esce da un cinema dopo aver visto l’ultima prodezza di Rambo VI (uscirà, uscirà…) prova disgusto per la guerra oppure segretamente spera di poter prendere a mazzate il primo disgraziato che gli graffia il paraurti?.

La domanda non avrà mai risposta, per fortuna, né, meno che mai, una risposta univoca per tutti e valevole in tutte circostanze.

La spiegazione che mi sono dato io e che, secondo me, ha una passabile percentuale di veridicità, è che ogni buon racconto horror (e forse non solo) è una forma di esorcismo.

Il buon racconto horror ci mette di fronte ai nostri demoni e ci dice “e adesso cosa fai?”

Il demone ultimo – beh, che sarà l’ultimo ad essere sconfitto lo dice anche qualcun altro – è la Signora con la Falce e, in definitiva, si tratta di uno dei due, soli, veri, grandi temi della narrativa (l’altro è l’amore, per capirci).

Restringendo la visuale e/o abbassandola a un livello commerciale è facile notare come esistano decine di racconti dell’orrore per ogni forma di fobia. Abbiamo racconti, film e romanzi che parlano d’insetti, cani, ascensori, automobili, vicini di casa, specchi, uccelli, insegnanti, ecc. (si potrebbe continuare per ore).

Non solo.

In tantissimi racconti horror, soprattutto in quelli più risalenti, è presente il tema della Punizione.

Tanto per limitarmi a due esempi: quanti coniugi traditi tornano dalla tomba per vendicarsi del fedifrago, quante maledizioni colpiscono gl’incauti ladri?. E andate pure dai vostri vecchi (spero possiate farlo) e fatevi raccontare le favole che venivano narrate ancora solo agl’inizi del secolo scorso. Lo schema, magari sotterraneo, è spesso rappresentato dal binomio: trasgressione (anche minima) e punizione. Beh, se oggi sentiste qualcuno raccontare simili storie probabilmente chiamereste non solo il Telefono Azzurro, ma anche lo psicologo e i carabinieri.

Oggi simili racconti sono più rari, segno del mutare – senza dubbio alcuno – delle tecniche educative. A mio parere, però, ciò è anche il sintomo di una diversa percezione del Male (o del male) o, se volete leggerla in un’accezione religiosa, del Peccato, da parte della nostra società. Come si sa, infatti, la più grande astuzia del diavolo ecc.

Lo schema però spesso rimane, magari adattato ai tempi, mascherato, raffinato, ma rimane.

Oltre ad una funzione “educativa” (nel senso spiegato sopra) lo schema colpa – punizione è anche assolutorio.

Ad essere punito in modi raccapriccianti è il cattivo e, detto tra noi, non se la meritava, forse, una simile fine con tanti saluti ai diritti umani? Insomma, lui è il Cattivo e noi, automaticamente e necessariamente, i buoni. Nelle arene delle antichità venivano sbranati e sgozzati i condannati, noi oggi lo facciamo in effige, ma penso che il meccanismo psicologico sia ancora lo stesso.

Il racconto dell’orrore o del terrore però è un esorcismo, secondo me, in un senso più profondo e più ampio, che va ben oltre la funzione morale o assolutoria di cui ho detto sopra.

A un livello appena più profondo si scorge che, ad infliggere sofferenze è un mostro… noi… oh, noi non lo faremo mai, non è vero? Anzi, noi non saremo neppure capaci di pensarlo, meno che mai di scriverlo. Qualcun altro lo ha fatto al posto nostro, noi magari ci limitiamo a leggerlo, però è un peccato veniale. Del resto, per pensare e scrivere queste cose si deve essere un po’ matti e (ma diciamolo sottovoce) un po’ perversi. La diffidenza sociale verso chi legge horror, del resto, è superata solo dalla diffidenza verso chi scrive horror.

A un livello ancora più profondo, però, si può notare come simili angosce e nefandezze stiano lì, sulla carta (o sullo schermo del computer). Ci basta chiudere il libro per dominarle. Meglio ancora, ci basta andare all’ultima pagina per sapere come andrà a finire e rovinare così la suspence ed il climax che tanta importanza hanno nel racconto del terrore. Insomma: possiamo dominare i mostri. Possiamo imprigionarli non dietro sigilli, incantesimi e grotte tenebrose nelle profondità della terra, ma dietro lettere e parole e, una volta rinchiusi lì dentro, possiamo sconfiggerli con un semplice gesto della mano.

A questo punto vorrei chiedervi una cosa. Sì, proprio a voi che state leggendo. Avete visto come siano pochi i romanzi horror nelle librerie?

Ciò, a mio giudizio, dipende da due fattori intrinseci e da due fattori estrinseci che, come al solito, interagiscono.

Comincio da quelli intrinseci.

Il racconto horror non tollera, secondo me, due cose: la serialità e l’eccesso di fantastico.

Non tollera l’eccesso di fantastico perché scopo dell’horror è spaventare e, francamente, ci vuole del bello e del buono e, soprattutto, una bella dose d’immaginazione per aver timore di cose lontanissime dalla vita di tutti i giorni. Il Grande Cthulhu terrorizza le menti più sensibili (scrittori, poeti, musicisti, pittori), ma, per buona parte del racconto di Lovecraft, se ne sta rintanato nella morta R’lyeh, città da incubo dalle prospettive distorte sepolta al crocevia di più dimensioni. Se avesse passeggiato per New York avrebbe probabilmente incontrato King Kong o Godzilla ed avremmo avuto un racconto comico, o fantasy, o di fantascienza, non un racconto del terrore.

Il racconto horror, inoltre, non tollera la serialità perché ci si abitua a tutto. Questo è, per gli scrittori horror, un problema drammatico, ma non c’è tempo di analizzarlo. Mi limito a notare che il Conte Dracula appare all’inizio del romanzo, dove domina la scena, ma poi praticamente scompare, tranne in un’occasione o forse due (anche se abbiamo i brividi intuendo che cosa stia facendo nell’ombra che gli è madre)… mica se ne sta tutto il tempo sulla scena a palpeggiare fanciulle indecise se dargliela o no. Insomma: mettete un mostro in un libro e avrete forse un romanzo horror. Mettetene una dozzina e avrete la Casa delle Streghe al Luna Park. Non è la stessa cosa.

A questo punto vedrete come molti dei romanzi cosiddetti horror (a cominciare da quelli della sig.ra Meyer, ma, seppure migliori, potrei citare quelli della Hamilton) sovrabbondano in tutt’e due queste caratteristiche e quindi con l’horror vero e proprio hanno poco a che spartire.

Ci sono poi, secondo me, due cause estrinseche del declino del genere. Più precisamente, ragioni di marketing.

La prima è che la paura è spesso politicamente scorretta ed è come se gli editori fossero preoccupati di turbare la delicata psiche dei loro lettori con spauracchi immaginari (però legioni di serial killer se ne stanno acquattati nelle librerie… mah) oppure se temessero di essere accomunati a quella gentaglia poco raccomandabile che legge e scrive horror.

La seconda è che la narrativa moderna appare malata di gigantismo. Tomi e tomi di pagine e pagine che spesso ricordano i temini delle elementari (avete presente quando dovevate scrivere almeno quattro facciate protocollo e dopo due avevate finito il carburante?). La ragione è semplice: se un libro è “tanto” è anche giusto che costi tanto, no?

Salvo eccezioni, però, di solito lo scrittore horror non è un maratoneta, ma uno sprinter; al contrario di quello fantasy o di avventura, per esempio.

Dopo il boom degli anni ’80, insomma, secondo me il genere è in declino o in stasi.

Non mi preoccupo più di tanto, comunque.

I mostri, si sa, non muoiono mai.
- continua... -

Roberto Rossi "Rubrus"

****

Non c’è due senza tre e, se qualcuno vorrà ancora starmi dietro vorrei parlare di fantascienza.
Una noticina personale (non vogliatemene): venni in contatto con la fantascienza scendendo, come è lecito attendersi in un racconto fantastico, in una vecchia cantina dove i libri (erano per lo più edizioni Urania) erano ammassati alla rinfusa. Era la fine degli anni’70 / primi ’80 e oggi molti di quei romanzi, allora già un po’datati, sono vintage in un modo delizioso e quasi struggente. C’era anche una raccolta di racconti di Poe, un’altra legata alla serie “Alfred Hitchcock presenta” ed una vecchia, muffosa edizione di “Dracula” (quei tre libri, alla lunga, avrebbero influenzato il mio immaginario molto più degli altri). Dell’horror, però, ho parlato sopra e adesso tocca alla fantascienza.
FantaSCIENZA appunto, senza la bacchetta magica delle fate.
Sappiamo tutti quando è nata; alla fine dell’800, con l’illuminazione pubblica e il ballo Excelsior.
Certo, anche prima (per esempio l’isola volante di Laputa, di cui parla Jonathan Swift) è possibile trovare elementi fantascientifici nelle opere di narrativa; lo stesso Frankenstein può essere considerato un romanzo anche di fantascienza, ma è – a mio parere – solo con l’industrializzazione di massa delle società occidentali che il genere acquista la fisionomia che gli è propria.
“Che cosa succederà al mondo dopo che io non ci sarò più?” è la domanda che sta dietro ad ogni racconto di fantascienza (come a molti altri, ovviamente), ma, a mio giudizio, ciò che caratterizza la fantascienza è utilizzare la scienza e la tecnologia per rispondere.
Siamo nell’era del positivismo, del colonialismo e delle scoperte geografiche. Non a caso Doyle, il papà di Sherlock Holmes, scrisse più di un racconto di fantascienza anticipando per esempio, e non di poco, Micheal Chrichton.
A me piace pensare che, sin dall’inizio, il genere presenti la doppia faccia che da sempre gli è propria.
Abbiamo infatti le utopie – che denotano una fiducia pressoché illimitata nel progresso dell’uomo – e le distopie – che invece vedono abbastanza nero.
Abbiamo Verne che ci descrive in termini piuttosto trionfalistici la conquista della Luna e degli abissi. Anche quando ci parla di eroi “maledetti”, come Nemo (non il pesciolino, il capitano), la maledizione sta nel fatto che questi uomini sono troppo avanti e che il mondo non è ancora pronto per le nuove scoperte, non nell’intrinseca perniciosità delle stesse; non viene mai messo in dubbio che il progresso della scienza e della tecnologia sia – in sé e per sé – fondamentalmente “buono”.
Accanto a lui, però, abbiamo Wells che qualche dubbio se lo pone. L’isola del Dottor Moreau non è esattamente l’Eden e, anche se nel frattempo ci saranno millenni di progresso, già sappiamo che intorno all’anno 800.000 d.c. i nostri eredi non saranno gli apollinei Eloi (più o meno bestie da macello), ma i dionisiaci, cannibali Morlock. Insomma: non solo l’uomo non potrebbe usare bene il potere conferitogli dalla scienza, ma la stessa scienza, forse, non è, sempre e comunque, bene.
Facciamo un salto di qualche anno e accenniamo ad Asimov. La ragione, la scienza (positronica o psicostoria che sia) possono salvare gli uomini dalla barbarie in cui periodicamente e necessariamente ricadono. Gli stessi androidi, nelle mani di Dick, hanno tutt’altro ruolo e scopo, fino a mettere in crisi, non attraverso una banale conquista, ma grazie alla loro semplice, perturbante esistenza, il concetto di identità e di umanità (dietro c’è, ancora una volta, il personaggio della Shelley). Se facciamo un altro salto (mica abbiamo la macchina del tempo per niente, no?) atterriamo sul pianeta Cyperpunk e non è un bel vedere.
Ho diviso, molto grossolanamente, tra utopie e distopie.
Adesso mi va di fare un’altra divisione. Ci sono storie che si occupano soprattutto di come funzionano le macchine ed altre che si occupano di come funzionano gli uomini. Dico subito che non ho grande simpatia per le prime. Se proprio ne avessi voglia (ahahaha) leggerei un libretto di istruzioni di qualche aggeggio in vendita oggidì (non lo faccio mai, appartengo alla scuola di quelli che immaginano grosso modo a che cosa possa servire un tasto, lo schiacciano e vedono che cosa succede e confesso che qualunque oggetto un po’ più complesso di un telecomando mi mette in crisi) però stiamo parlando di fantascienza e quindi è necessario che, dietro o sotto il racconto ci stia una certa dose di verosimiglianza scientifica. Per questa ragione ho qualche difficoltà a considerare per esempio “Cronache marziane” un libro di fantascienza. Il grande Bradbury ci dice che le astronavi vanno su Marte, punto e basta. Marte, poi, è spesso simile al natio Illinois. Anche avendo le conoscenze degli anni ’50 è un po’ dura da credere… insomma, stiamo più dalle parti della fantasy, ma in fondo chi se ne importa delle etichette? Un romanzo fantascientifico, invece, è senza dubbio il grande, distopico Fahrenheit 451, così come lo è Brave New World di Huxeley (e non dimentichiamo “1984”). Sono libri insomma in cui si parla di una possibile, scientificamente sostenibile scoperta o sviluppo scientifico o tecnologico e si immagina che influsso potrebbe avere quella novità sulla società e sull’individuo. Per me la fantascienza è questo.
Bene, ora che vi ho seccato abbastanza con questa carrellata assolutamente insufficiente e non rappresentativa (tranne forse per il sottoscritto) vorrei farvi una domanda (sperando di non disturbare chi si è già addormentato): quale tra questi libri sentite più vicino al vostro modo di vedere le cose?
Molto probabilmente, non pochi di voi sentiranno più affini al proprio modo di sentire i romanzi in cui viene descritta un’utopia negativa, che sia il mondo distrutto dalla guerra nucleare, devastato dall’inquinamento, oppresso dalla dittatura mediatica, disumanizzato dalla genetica e dalla robotica.
Non è un caso e questa disillusione nasce, a mio parere, da due ordini di motivi.
Tornate un attimo con me in quella cantina.
Siamo alla fine degli anni ’70, il muro di Berlino è bello saldo, i reduci del Vietnam girano smarriti per le strade americane e coalizioni ondivaghe di pluripartiti governano il Bel Paese (beh… da questo punto di vista non è cambiato poi tanto).
Il duemila è il futuro, gente; un’epoca ancora abbastanza lontana da poter credere che le auto in quei giorni (giorni che noi vedremo) voleranno tra i grattacieli anziché intasare le strade.
Tornate ai nostri giorni, adesso e chiedetevi: tra venti, trent’anni scienza e tecnologia renderanno il mondo migliore?
La risposta, come dicevo sopra, è probabilmente no e credo che sia determinata da un fattore anagrafico ed un fattore sociale.
Gli anni ti portano via i sogni, le illusioni, le utopie, certo, ma anche, stando ad un livello molto più terra terra, la capacità di padroneggiare la tecnologia.
Ho guardato degli adolescenti e sono giunto alla conclusione che l’homo sapiens stia sviluppando una nuova forma di pollice opponibile… perché come altrimenti farebbero a smanettare sul cellulare con quella velocità?.
Prendete un ragazzino e dategli un computer (o un qualunque oggetto a medio / alta tecnologia). Garantito che, in capo a pochi minuti, capirete che cosa devono aver provato gl’indio quando hanno visto le prime armi da fuoco.
La nostra è una società tendenzialmente vecchia e, come tale, la massa della popolazione non ha con la tecnologia quella dimestichezza che contraddistingue le nuove generazioni, quindi, per il grande pubblico, l’appeal della fantascienza svanisce. Non solo: di solito si teme ciò che non si comprende. Di qui una certa tendenza a vedere nero.
Ma ancora non basta.
Vecchi o giovani che siamo penso che, come società – e spesso a torto, c’è molto di irrazionale in questo – oggi non crediamo più nella scienza e nella tecnologia come strumenti per creare un futuro migliore. Crediamo negli Ipad, nei social network e nei cellulari, ma non è la stessa cosa. Non ardiamo più dal desiderio di andare a scovare gli alieni in qualche angolo del cosmo (nemmeno per conquistarli), ma aspettiamo che, magari nel 2012, arrivino per toglierci dai guai o al massimo per far piazza pulita di tutto il caos che abbiamo combinato.
Il lettore contemporaneo di fantascienza potrebbe dire “c’era una volta il futuro” e dipinge, come per esorcizzarli, cupi scenari (ho già detto che spesso la letteratura fantastica è una forma di esorcismo? Oh beh, pazienza).
Credo che questa considerazione valga per tutti i tipi di fantascienza, da quelli, tradizionali, in cui compare e predomina il tema del viaggio, nel tempo e nello spazio, a quelli in cui si descrive la nostra società così come potrebbe risultare a seguito di una evoluzione (o involuzione) scientifica o tecnologica: ingegneria genetica, scoperte atomiche, scoperte dell’ambito della psicologia della parapsicologia, delle scienze sociali. Credo che valga, altresì, per i racconti ucronici, in cui si domanda “che cosa sarebbe successo se…” (esempio più frequente: se i nazisti avessero vinto la guerra), per quelli steampunk, cyberpunk, per la fantascienza apocalittica o postapocalittica, fantapolitica ecc.
A questo punto, entrate in una libreria, magari una di quelle grandi e fate una prova. I romanzi di fantascienza sono pochini, forse ancor meno di quelli dell’orrore. Tutti e due, assieme, non raggiungono la quantità dei romanzi fantasy.
Insomma: anche la fantascienza è un genere letterario appannato e la causa principale è, a mio parere, la sfiducia nel domani.
A pensarci bene è una considerazione estremamente triste, il punto finale di una parabola cominciata dopo la seconda guerra mondiale quando a tutti è stato chiaro che cosa la scienza poteva provocare.
Ormai non capiamo più il progresso, non ce ne fidiamo più, abbiamo trascurato le grandi teorie, le grandi scoperte, le grandi invenzioni e ci siamo rifugiati nelle “apps” (all’inizio non sapevo se ero un povero scemo o se la sintonia della TV aveva problemi, poi, dopo due giorni, ho capito di cosa stava parlando la pubblicità).
La cosa più triste, però, è che la colpa di tutto questo non è della scienza… ma non divaghiamo.
Eppure di cose da scoprire, da esplorare ce ne sarebbero. Infiniti universi ciascuno dei quali, forse, infinito.
Noi però, più che di razzi ad annichilazione, preferiamo, come grande pubblico, sentir parlare di draghi, orchi ecc… ma questa è un’altra storia.
Quella della fantasy di cui parlerò, magari, la prossima volta.
- continua... -
Roberto Rossi "Rubrus" 
 
 
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Magari i miei cinque lettori si aspettano che chiuda il discorso che avevo iniziato un po’ di tempo fa
circa la narrativa fantastica. Erano quattro chiacchiere e quattro, insomma, devono essere.
Beh, avevo detto che avrei parlato del genere fantasy – sempre da utente della narrativa, per carità, questo non è un “saggio” ma qualche elucubrazione di un fruitore del fantasy.
Per onestà intellettuale devo dire di essermi avvicinato tardi al genere e di averlo frequentato abbastanza poco.
Personalmente, definisco fantasy quel genere di narrativa fantastica in cui predominano, nella costruzione della trama, elementi tratti da mitologie esistenti o inventate di sana pianta dall’autore.
In effetti, il fantasy è, tra i tre generi in cui si può sommariamente dividere la letteratura fantastica (e, sia ben chiaro, senza essere troppo categorici: sono indicazioni di massima e devono essere, secondo me, funzionali alla comprensione, non viceversa) quello più avulso dalla realtà.
L’horror si svolge in ambientazioni realistiche e contemporanee – anzi, la sua forza spesso deriva proprio da questo.
La fantascienza esige e pretende verosimiglianza scientifica.
Il fantasy della inverosimiglianza, della improbabilità, invece, fa la sua bandiera. Mi pare estremamente improbabile (anche non mi sento di escluderlo del tutto) che ci sia da qualche parte un trono di Aquilonia, un’isola di Melnibonè o una città di nome Lankhmar o Ankh – Morpork. Del realismo il fantasy se ne infischia, anzi, utilizza il fascino dell’impossibile proprio come le sirene usavano il loro canto.
Non è forse un caso, però, che a questa conclamata inverosimiglianza faccia spesso da contrappeso un’estrema analiticità e minuzia nella descrizione di mondi fantastici. Guardate come sono accurate le piantine che accompagnano i libri fantasy e la precisione, quasi da antropologo, da storico o da entomologo, con cui si descrivono creature immaginarie.
Credo che ciò dipenda da due ragioni.
Il primo è, credo, un’insopprimibile esigenza di coerenza della realtà. I mondi fantasy che mi è capitato d’incontrare sono a volte molto diversi tra loro, ma quasi tutti hanno una struttura interna molto solida. Il lettore fantasy non ha nessuna difficoltà ad immaginarsi una lucertola volante che sputi fuoco, ma esige che quel fuoco bruci. Anzi, di più, alle volte sente il bisogno di specificare che quel fuoco è, in realtà, un veleno che s’infiamma al contatto con l’aria (come di draghi descritti da Moorcock) o che il nostro lucertolone non potrebbe volare (si suppone che la gravità del mondo fantastico in esame sia come la nostra, altrimenti dame e cavalieri ballonzolerebbero come astronauti), ma vola perché le forze del Caos che s’infiltrano dal multiverso gli forniscono l’energia necessaria.
Il secondo motivo, a mio parere, è più sottile e coinvolge, credo, l’essenza stessa della narrativa fantasy. All’inizio della nostra chiacchierata dicevo che, a mio giudizio, la narrativa fantastica si occupa spesso di assoluti: il Bene, il Male, la Vita, la Morte ecc. Reputo che, nel fantasy, questo emerga con particolare evidenza. L’esempio più noto è Tolkien. Sauron è il Male e non è (per interpretazione autentica dello stesso autore) Hitler in versione fantastica – casomai il buon vecchio Lucifero. Il Male dev’essere sconfitto e poche storie, senza gl’infingimenti e i tentennamenti della vita reale. In Brooks è più o meno la stessa storia, almeno per quello che ho letto. Questa nettezza di forme e contenuti si trova però (a mio parere) anche in autori assai diversi. R.E Howard col suo Conan si pone il dilemma barbarie / civiltà (e tutte le sue simpatie vanno alla prima). Il Cimmero affronta i problemi della vita (che hanno l’aspetto di mostri e/o regine sessualmente depravate) e li sbaraglia a mazzate (beh, coraggio, chi non ha mai sognato di farlo, almeno una volta?). Nella pessimistica saga di Elric, Moorcock rovescia gli stilemi del genere per dirci che (ed è esattamente il contrario di quello che sostiene Tolkien) alla fine è il Caos (leggasi pure entropia) a vincere e la fine coincide con la morte dell’universo… salvo poi ricominciare tutto nell’universo successivo. Nei romanzi di Leiber (un autore che preferisco come scrittore horror o SF, peraltro) compaiono, e senza maschera, gli archetipi della psicologia junghiana. Uno dei personaggi più riusciti del Mondo Disco creato da Pratchett è la Morte stessa, che agisce, filosofeggia e ci fa ridere allo stesso tempo.
Insomma: nel fantasy abbiamo a che fare con gli Assoluti, gl’Interrogativi Ultimi, i Grandi Temi senza le difficoltà cognitive, interpretative, applicative che incontriamo nella vita di tutti i giorni.
Ecco perché, accanto alla pressoché assoluta improbabilità, i migliori libri fantasy (almeno, quelli che io giudico tali) sono intrisi di qualcosa molto simile alla logica formale (Lewis Carrol insegnava matematica).
A differenza del mondo reale, il mondo fantasy ha un senso o, quantomeno la possibilità di un senso, caratteristica che, nel mondo reale, non sempre ci è dato rinvenire. Ecco perché i romanzi fantasy hanno una struttura coerente. Esprimono spesso il bisogno di un senso, di un significato che il lettore non fatica a cogliere subito sotto la superficie delle cose (duelli, battaglie ecc)
L’accusa che si muove al fantasy (e in generale alla letteratura fantastica) è di fomentare l’escapismo, la fuga dalla realtà. È un’accusa quasi sempre vera, ma che non si cura di una domanda fondamentale: fuga sì, ma per andare dove? Probabilmente in un mondo dove il bene vince e il male perde, un mondo molto vicino – se non proprio lo stesso – al Paese della Felicità dove, alla fine delle favole che ci raccontavano da bambini, vanno a vivere l’eroina ed il Principe Azzurro.
Credo che lo stesso discorso valga, anche se i termini della struttura sono invertiti, nei romanzi fantasy dove il meraviglioso irrompe nel quotidiano. Qui, a differenza degli altri, non siamo noi ad essere trasportati in un contesto fantastico, ma è il mondo fantastico ad essere – scopriamo – tutto intorno a noi. American Gods, di Gaiman, è un buon esempio. Stringi stringi, il tema è sempre quello: perché succedono le cose? Qual è il senso di questo o di quello – o, addirittura, di tutto?
Aggiungo che il fantasy è anche un buon banco di prova per verificare la fondatezza di un’ affermazione di King (il saggio – quello sì che è un saggio – è “Danse Macabre” Ed. Theoria): tutta la letteratura fantastica si basa sul concetto di potere (anche l’horror e la fantascienza); quella mediocre tratta di chi il potere ce l’ha e lo usa, quella di qualità superiore di chi il potere non ce l’ha, ma lo scopre oppure di chi lo perde, oppure di chi paga un prezzo salatissimo per averlo.
Ecco perché, a mio parere giustamente, le storie di sword and sorcery (alla Conan) sono di solito qualitativamente inferiori a quelle di epic fantasy (alla Tokien) … a proposito, alla faccia di chi ha in uggia le distinzioni, queste sono categorie descrittive usate dagli appassionati di fantasy e, francamente, sembrano eccessive anche a me – ma forse proprio appassionato di fantasy non sono.
Adesso facciamo il solito giro in libreria… sono tanti i romanzi fantasy, vero? Secondo me sono molti di più di quelli di fantascienza e dell’orrore ed è troppo facile liquidare il fenomeno come infantilismo editoriale e/o del lettore.
Io credo che le ragioni siano almeno due.
La prima è commerciale. Il Fantasy adora le saghe, i cicli interminabili. Il contrario di quel che succede, o dovrebbe succedere con l’horror che si sta “fantasyzzando” – i libri della Hamilton, con vampiri, zombi, stregoni inseriti nella nostra realtà e che convivono con gli umani sono un ottimo esempio (anche qui mi sono fermato ad un libro solo, però).
La seconda è legata da un lato al bisogno di senso ed alla crescente sfiducia nella tecnologia. Come dicevo quando palavo della fantascienza, ormai non capiamo più il progresso, non ce ne fidiamo più, abbiamo trascurato le grandi teorie, le grandi scoperte, le grandi invenzioni e ci siamo rifugiati nelle “apps” per il telefonino… ma non è la stessa cosa, vero?
Vado anche più in là.
Abbiamo ancora bisogno di credere che, dietro l’angolo, ci sia la possibilità di un domani migliore dell’oggi e, cadute molte certezze (scienza, politica, religione ecc.), rimane, magari senza che ce ne accorgiamo, la bacchetta delle fate. Letteralmente e letterariamente.
Chesterton sosteneva che, quando gli uomini smettono di credere in Dio cominciano a credere a qualunque cosa e non escludo che dietro il boom del genere da trent’anni a questa parte possa esserci anche questo fattore. Un fattore magari poco influente, probabilmente minimale, ma non mi sento di escluderlo del tutto.


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Beh, la chiacchierata è finita.
Vorrei “rubare” però il congedo ad uno dei miei scrittori preferiti, Stephen King e, più specificamente, da quello che, tra i suoi libri, è forse il mio preferito: “It”.
Parto dal presupposto che non sappiamo molto di quello che abbiamo intorno e neppure di quello che abbiamo dentro.
A parer mio – scusate se parlo di me, ho cercato di evitarlo, ma “Parliamo tanto di me” potrebbe essere anche lo slogan del blogger – sappiamo tutt’al più di non sapere.
Spesso ci vuole, per dire che qualcosa non esiste, la stessa dose di fede che serve per dire che qualcosa esiste.
Parlare di fede, in tutte le sue accezioni, è però eccessivo, soprattutto per una chiacchierata come questa, che limita il proprio oggetto alla narrativa fantastica.
Non mi sento di escludere che la vasta area dell’ignoto possa contenere Qualcosa. Senz’altro mi piace crederlo.
Non possiamo parlarne e forse, razionalmente, non dovremmo, dato che non sappiamo granché.
Ciò nondimeno osiamo raccontarne, senza rimanere bloccati nelle nostre piccolezze e miserie quotidiane. Ci scriviamo sopra, come se non bastasse, poesie racconti e romanzi.
Credo che sia una forma di magia, molto più potente di qualunque paletto di frassino, di qualunque motore ad annichilazione, di qualunque bacchetta delle fate.
E, come dice Stephen King, il romanzesco è la verità dentro la bugia.


Roberto Rossi "Rubrus"

martedì 9 giugno 2015

Segnalazione: L'amante della massaggiatrice cinese, Rosa Santoro (Arduino Sacco editore)



L’AMANTE DELLA MASSAGGIATRICE CINESE in un rinnovato stile letterario, l’autrice Rosa Santoro ricerca l’eros attraverso esperienze che vanno oltre le convenzioni stereotipe. Amneris, una
massaggiatrice di un centro massaggi, di cui pullulano le nostre città, intraprende con un cliente, professore ultra sessantenne single in pensione, un’intensa relazione piena di risvolti apparentemente
trasgressivi, capaci di coinvolgere il lettore, anche il più smaliziato, in una sorprendente scoperta di quanto sia possibile amare al di fuori dai canoni confezionati dai mass media che divulgano l’amore e il sesso in un prodotto usa e getta.

Prima della stesura Rosa Santoro ha cercato di individuare tra i grandi dello spettacolo chi meglio poteva personificare il protagonista del suo romanzo. Lo individua in Toni Servillo dopo aver visto il film – La grande bellezza. – E afferma che l’immagine di Toni Servillo l’ha accompagnata in tutta la scrittura. E ci invita a leggere il romanzo immaginando l’attore muoversi tra queste pagine. Il volto drammatico di Servillo che, nasconde il proprio disagio alla modernità, fa meglio comprendere il significato dell’opera “L’amante della massaggiatrice cinese.”


Titolo: L'amante della massaggiatrice Cinese
Editore: Arduino Sacco
Autore: Rosa Santoro
Genere: Narrativa
Formato: (mm.) 200 x 130
Pagine: 124
Prezzo: 9.90
ISBN - 978-88-6951-025-0


Focus sull'editore:


L'associazione culturale Arduino Sacco editore e le librerie dell'autore non usufruiscono né di finanziamenti pubblici né di finanziamenti da parte degli autori. Si autofinanziano con la partecipazione di tutti coloro che condividono, insieme ai librai e agli autori, gli obiettivi dell'associazione per la promozione e divulgazione di opere inedite.


Altre info: http://www.panorama.it/cultura/libri/lamante-della-massaggiatrice-cinese-di-rosa-santoro-la-recensione/

Segnalazione: Il Castello racconta, Del Miglio Editore

 



Si è svolta sabato 6 giugno, presso le scuole elementari di Cazzano di Tramigna, la presentazione del volume "Il Castello racconta" di Katia Galvetto, edita da Del Miglio Editore


Guarda alla terra, per conoscere te stesso.
(San Bernardo)

La fiaba è il luogo di tutte le ipotesi: essa ci può dare delle chiavi per entrare nella realtà per strade nuove, può aiutare il bambino a conoscere il mondo.
(Gianni Rodari)


Il libretto “Il Castello racconta...”, edito da Delmiglio per la collana Urbs Picta, racconta in forma di fiaba della nascita di tre chiese nella val d’Illasi attraverso la voce del castello.
Le favole aiutano a crescere e non c'è niente di meglio, per crescere, se non conoscere quello che ci circonda. Il territorio ci parla della nostra storia, delle nostre radici, ed è un patrimonio che va preservato attraverso la memoria.
Così nasce questa favola, scritta da Katia Galvetto e illustrata da Renato Molinarolo, un racconto che ci parla di una valle e delle sue chiese, nate dalla devozione popolare nei secoli. E se le chiese erano a protezione dello spirito delle genti che qui abitavano, il castello, invece, ne sorvegliava i corpi.
L'augurio è che questa favola avvicini i ragazzi al loro territorio, così che, ovunque il destino li porti, abbiano nel cuore un luogo nel quale tornare.

Info: redazione@delmilio.it

Segnalazione: "Secrets" di Tea Usai (Genesis Publishing)

Secrets

Tea Usai

Segnaliamo l'uscita, già dal 20 aprile 2015, del romanzo paranormal romance, new adult di Tea Usai: "Secrets"

  • COLLANA: InFantasia
    GENERE: Paranormal Romance, New Adult
    PREZZO: € 3,99
    PAGINE: 161
    Sinossi VOL. 1 di "Secrets Saga"
    Green Hill è una piccola cittadina americana famosa per le sue leggende legate agli unicorni, in particolar modo alla dolce storia dell’unicorno nero; ma ormai nessuno dei suoi abitanti bada più a queste favole per bambini, tanto meno Lorelai Knight, una sognatrice ma pur sempre con i piedi per terra, che sa distinguere ciò che è reale da ciò che è fantasia, almeno, finché il suo credo non è stravolto da Noah Forbes.

    «Credi nei mostri Lorelai?»
    «Direi di no! Sono un po' cresciuta per certe cose.»


    Cosa accade quando la più oscura delle creature bussa alla sua porta?
    Sulla scia di un mito, di una favola, di una litania, sulle tracce di un “unicorno nero”, Lorelai entrerà a far parte di un universo oltre le convenzioni sociali, di un mondo in cui non credeva ma che la sconvolgerà, rapendola e ammaliandola per mano del sentimento più puro e potente che possa esistere al mondo: l’amore.
    Una rosa Caribia e il profumo di miele, vaniglia e fiori d’arancio, accompagneranno il lettore in un paranormal romance straripante di sentimenti, sensualità e di creature da scoprire, in cui nulla sarà scontato tanto che anche Lorelai, finirà per conoscere meglio se stessa.



    Info sull'Autrice: Tea Usai

    Vive a Santorso, una ridente cittadina in provincia di Vicenza, con il marito e due figli. Sin da piccola ama rifugiarsi nella lettura e in tutto ciò che implica l’uso della fantasia ed è proprio grazie a questa passione che qualche anno fa ha deciso di avvicinarsi alla scrittura. Scrivere per lei significa rifugiarsi in tanti mondi diversi dove dare libero sfogo alla sua immaginazione che, a detta degli altri, è straripante. Inventare storie e dar vita a personaggi fantastici è, prima di tutto, un piacere personale, un gioco che le piace condividere con il marito, i suoi figli e le amiche.