
Quando
ero “dall’altra parte della barricata” , ovvero quando leggevo e non
osavo sperare di esser considerata una scrittrice, mi è capitato di
innamorarmi dell’ispettore Adamsberg, oppure di sognare di essere come
Robin Hood (ehm, lo ammetto, non avevo l’animo della principessa da
salvare, nemmeno da bambina), di fantasticare sulla vita di Momo o di
esser pronta a combattere i draghi al fianco di Nihal; insomma, di esser
tanto coinvolta dal libro che stavo leggendo da arrivare a considerarne
i personaggi al pari di vecchi amici ai quali davo appuntamento e
ritrovavo ogni qual volta sfogliassi le pagine sulle quali era
raccontata la loro storia; quando terminavo il libro, mi sorprendevo a
sperare in un seguito perché sentivo la mancanza dei personaggi che
avevo imparato a conoscere.
Mi
sentivo un po’ in colpa perché leggevo tante biografie ed articoli
riguardanti autori i quali parlavano di quanto fosse difficile liberarsi
di un determinato personaggio da loro creato; così difficile che alcuni
sono arrivati perfino ad odiare le loro stesse creazioni. Basti
pensare, fra tutti, a Sir Arthur Conan Doyle che aveva fatto morire
Sherlock Holmes e poi era stato costretto a scrivere un romanzo nel
quale si scopriva che non era morto davvero, per le insistenze del
pubblico.
Mi
sentivo in colpa perché non volevo che uno scrittore arrivasse ad
odiare un proprio personaggio e al tempo stesso ero incuriosita dai
meccanismi mentali che portavano a una situazione del genere.
Ho
potuto capirlo soltanto adesso che sono diventata scrittrice anche io
(così dicono) e i miei scritti vengono letti da molte persone. Nel mio
piccolo, mi sono trovata nella stessa situazione: ho creato dei
personaggi che chi mi legge ha amato a tal punto da chiedermi di
scrivere ancora storie sul loro conto.
Devo
fare una premessa doverosa: per quanto mi riguarda, sono più che felice
di questa reazione del pubblico. Una delle soddisfazioni più grandi per
chi scrive, per me, è scoprire che ciò che creo piace, appassiona, fa
sognare e fantasticare, ridere, piangere, emozionare. È altrettanto
bello vedere un proprio personaggio crescere, assumere una personalità
propria, maturare e vivere nell’immaginario collettivo come se fosse una
persona reale.
Però.
C’è
un però che ho realizzato soltanto ora e che secondo me spiega come
alcuni scrittori siano arrivati ad odiare le loro creature. Proverò a
spiegarvelo e non per dirvi di smettere di chiedere che si parli ancora
di un determinato personaggio, ma per invitarvi ad aprire la mente (se
siete lettori, non vi sarà di sicuro difficile farlo) per accogliere le
nuove storie che vengono proposte anche se il vostro scrittore preferito
non vi ha inserito il vostro eroe o la vostra eroina.
Dovete
sapere che siamo dei creativi, innanzi tutto: la creatività non ha
regole, non sopporta le ripetizioni e si spegne quando diventa routine.
Chi scrive ha tante storie da raccontare, pronte in punta di penna: la
fantasia galoppa, gli stimoli sono molteplici, infiniti e non sempre i
personaggi già creati si adattano a nuovi contesti. E così, nasce quella
voglia di liberarsi di loro per poterne creare altri e cambiare
ambientazione, iniziare nuove avventure, nuove sfide, magari cambiando
genere.
Non
sempre va bene, non sempre riusciamo a ricreare la stessa magia, ma a
volte invece si scopre che quella nuova è perfino migliore di quella
precedente. Possiamo soltanto sperare di esser in grado di inventare
nuovi personaggi che siano in grado di farsi amare come gli altri.
E
poi c’è la paura, la famosa “ansia da prestazione”, quella che ci fa
dire “Era perfetto così, adesso se scriverò ancora di questo
personaggio, potrei rovinare tutto”.
Ecco come nasce la famosa “maledizione del personaggio” e ciò che abbiamo creato con tanto amore diventa la nostra croce.
Una
croce che in realtà, anche se molti non lo ammettono, siamo ben felici
di portare: significa comunque che almeno una volta nella nostra vita
siamo stati in grado di fare quello che sognavamo, ovvero trascinare nel
nostro mondo di fantasia i lettori e coinvolgerli a tal punto da
lasciare un segno di noi.
Dal
mio punto di vista, quello di un’ autrice esordiente che si sta ancora
cercando di abituare all’apprezzamento che riceve perché non sperava in
tanta fortuna, la maledizione del personaggio è qualcosa di ancora molto
lontano, ma finalmente comprensibile e forse perfino auspicabile.
di Laura Roggero
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